ALPHA, il terzo body horror di Julia Ducournau

Recensione di Alpha, il nuovo film con Golshifteh Farahani e Tahar Rahim, solo al cinema dal 18 settembre!

La locandina italiana del film Alpha.

SCHEDA DEL FILM

Regia: Julia Ducournau
Cast: Mélissa Boros, Golshifteh Farahani, Tahar Rahim, Emma Mackey, Finnegan Oldfield
Durata: 128 minuti
Uscita: giovedì 18 settembre 2025
Distribuzione: I Wonder Pictures


RECENSIONE

In un mondo dove soffia un vento rosso e la paura striscia silenziosa, la protagonista del film è la tredicenne e inquieta Alpha, che vive sola con sua madre, dottoressa in una clinica specializzata. Quando la ragazza torna da una festa con un tatuaggio “fatto in casa”, il terrore che la bravata l’abbia portata a contrarre un pericoloso virus che da tempo ormai trasforma le persone in pietra inizia ad aleggiare nelle loro vite. Nel frattempo secondo la teoria del “chi non muore si rivede”, dal nulla ricompare lo zio tossicodipendente Amin, che trascinerà la famiglia nel passato di in un incubo ormai sepolto ma mai superato.

Alpha è il terzo body horror della regista Julia Ducournau, un’opera potente, suggestiva, struggente, forse il suo film più duro, con meno elementi di horror fisico, ma un’intensità mentale ancora più inquietante.

Una scena del film Alpha ©MANDARIN COMPAGNIE KALLOUCHE CINEMA FRAKAS PRODUCTIONS FRANCE 3 CINEMA

Presentato al Festival di Cannes 2025, dove ha diviso – come sempre – pubblico e critica, Alpha arriva dopo Raw (2016) e Titane (Palma d’Oro a Cannes 2021). La regista francese torna a esplorare pelle e organi della sua protagonista ancora una volta femminile, e ancora una volta inquieta, diversa, ribelle. Torna a parlare di mutazione di un corpo femminile in questo caso già in una fase di trasformazione: quella dell’adolescenza.

La outsider Alpha, che non ha il padre e vive sola con la madre, si ritrova catapultata nell’incubo dell’incertezza del non sapere se abbia contratto oppure no un virus che trasforma le persone in pietra fino a farle soffocare. Sebbene il riferimento principale sia il dramma dell’AIDS che ha segnato gli anni ’80, è inevitabile che affiori anche il ricordo del Coronavirus, che ci ha trasformati in sospetti, in infetti, e infine in minacce gli uni per gli altri. È questo l’aspetto forse più inquietante e realistico del film, il modo in cui l’umanità riesca sempre a auto sabotarsi invece che supportarsi.

L’isolamento di Alpha arriva così al suo apice, i compagni di scuola – persino quello che sembra essere il suo ragazzo – iniziano a evitarla e a farla sentire sempre più sola. Addirittura viene fatta allontanare dalla scuola “per ragioni di sicurezza”, perché ormai è una minaccia. Ma la minaccia che sta sotto al virus in realtà è più sottile. È una personalità non omologata la vera minaccia per la società.

Tahar Rahim in una scena del film Alpha ©MANDARIN & COMPAGNIE KALLOUCHE CINEMA FRAKAS PRODUCTIONS FRANCE 3 CINEMA

A tutto questo si aggiunge l’improvvisa ricomparsa dello zio (un maestoso Tahar Rahim) – di cui lei ha rimosso il ricordo – che la trascina con sé in un viaggio surreale fra i sobborghi decadenti di una città dove il vento non smette mai di soffiare, presagio di qualcosa di terribile che rende tutto instabile e sgretola ogni certezza.

Del virus si sa poco, se non che si trasmette con il sangue. La paura diventa presto irrazionale perché nell’ignoranza la paranoia e l’intolleranza sguazzano sempre indisturbate. Si può diventare vittima, carnefice o capro espiatorio nel giro di pochi istanti, rievocando l’atmosfera cupa degli anni ’80, quando AIDS, droga e omosessualità venivano erroneamente percepiti come indissolubilmente legati.

Siringhe e sangue non mancano, ma l’orrore corporale qui si sposta altrove: non più nel corpo che si deforma, ma nella mente che vacilla.

Alpha rappresenta l’adolescenza in tutte le sue sfaccettature: il suo è un corpo fatto di carne, pelle, massa indistinta di capelli, lacrime e sudore, sangue e rabbia. È il contrasto vivido con le statue, le creature di marmo che si stanno pietrificando, zombie rigidi ormai incapaci di reagire. Mélissa Boros interpreta in modo straordinario questa ragazza che è ancora bambina nel corpo e nelle espressioni nonostante porti addosso un peso troppo grande per la sua età. La sua recitazione restituisce la forza e insieme la fragilità di un personaggio memorabile che oscilla fra innocenza e consapevolezza, paura, e coraggio, empatia e ribellione.

Mélissa Boros in una scena di Alpha ©MANDARIN & COMPAGNIE KALLOUCHE CINEMA FRAKAS PRODUCTIONS FRANCE 3 CINEMA

La profondità emotiva va oltre rispetto alle prime due opere della regista, si fa più viscerale. In questa storia non è solo un virus a trasmettersi. Ma un trauma. Un trauma famigliare rimosso – e si sa che le cose nascoste e non affrontate hanno il brutto vizio di diventare sempre più ingombranti.

Dalla dimensione intima della famiglia lo sguardo si allarga alla collettività, dove il trauma – in questo caso la mancata elaborazione di un lutto – trasmesso di generazione in generazione, si rivela più insidioso e temibile del virus. Un’eredità che si trasmette con la paura e la vergogna.

Presente e passato si intrecciano costantemente, filtrati dallo sguardo di Alpha — prima bambina, poi adolescente. Anche visivamente, questa fusione prende forma attraverso due fotografie contrastanti: il passato è avvolto in tonalità calde, quasi seppia, come una vecchia pellicola scolorita dal tempo; il presente, invece, è freddo, quasi desaturato, dominato da grigi marmorei e spenti, simili al colore delle statue. Perché qui i corpi non sono solo prigionieri della malattia, ma lo sono soprattutto della solitudine.

L’unica strada alla fine è quella dell’accettazione. Del lasciare andare anche chi vorremmo tenere stretto per sempre.

Del riconoscere che il dolore non si supera, ma si attraversa. Come un vento che non smette mai di soffiare.

Margherita Giusti Hazon


TRAILER UFFICIALE

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